venerdì 1 febbraio 2013

"SunDiego Pills: living the California Dream" di Laura Cristaldi

8 gennaio 2013. Aeroporto di Fiumicino. Direzione San Diego, California. Il sunshine State, l’ottava città più grande d’America, dove piove una cinquantina di giorni l’anno (ovviamente noi ne abbiamo già beccati almeno 6 o 7). Con me due bagagli a mano e due valigie da 23 chili. Una arriverà a destinazione. L’altra no. Quella che contiene tutti i vestiti ovviamente. Perché trasloco metà dei miei averi? Perché io in California ci passerò 5 mesi. Mi presento: sono Laura, studentessa all’ultimo anno di Economia e come meta per il mio exchange program ho scelto gli Stati Uniti. É il mio ultimo semestre e ho deciso di fare l’esperienza del college americano, di provare a vivere il sogno americano. 18 ore di viaggio, 12 dirette da Londra Heathrow mi portano qui, a 9 ore di fuso orario da casa pronta per una nuova avventura. Non è la prima volta che parto da sola. Sono una sorta di profuga. La “colpa” è dei miei genitori che mi hanno iniziato a portare in giro per il mondo a quattro anni. A 14 sono partita per la prima volta sa sola. Ho già girato gli Stati Uniti in lungo e largo, California compresa e so quello che mi aspetta. Questo è il mio secondo erasmus e come per tutti quelli che partono una seconda volta la paura e un po’ quella di fare continui confronti, perché io in Olanda due anni fa ci ho lasciato un pezzo di cuore. Ogni viaggio ti lascia qualcosa. Ti fa crescere, imparare, conoscere cose e persone nuove. Ogni viaggio vale le ore di volo, il fuso orario, l’adattamento iniziale, la fatica di crearsi una vita nuova in una nuova città. Chi come me si è trovato a lungo in Paesi esteri sa che non è facile ma se ho deciso di partire di nuovo è perché so già che ne sarà valsa la pena. Sono passati 20 giorni e dopo un periodo di assestamento in cui ho dovuto cercare casa, macchina, mutande e vestiti, iscrivermi ai corsi, comprare i libri, le coperte, fare “LA” spesa sono qui a tirare le somme con voi. San Diego è veramente una città enorme. Come molte città Californiane si estende in larghezza, malgrado i grattaceli della Downtown siano notevoli e rendano lo skyline che si può ammirare dall’isola di Coronado, qui di fronte, incredibile. Ergo: se non hai la macchina sei finito! I mezzi non esistono. Ovvero ci sono ma non sono assolutamente proporzionati alle dimensioni e le esigenze di questa città. Qui girano macchine pazzesche: Camaro, Mustang, Mercedes, enormi pick-up con le ruote alte quanto la mia 500. Anche 500. La nostra macchina non ha nemmeno la chiusura centralizzata ma cammina. Piano ma cammina. E costa poco. Ovunque ci sono palme. Le case non hanno muri, siepi o altro che le protegga dal mondo esterno. Forse è perché sembrano di carta pesta e quindi aprirle non è comunque questo grande problema. O forse perché gli americani sono civili e non entrano a derubare le case degli altri. Sarà perché la proprietà privata è uno dei grandi principi su cui si fonda questo Paese. O forse perché in concreto tutti hanno un’arma in casa e non conviene entrare a farsi un giro in casa d’altri. Tra tutte le opzioni l’ultima è decisamente quella che mi convince di più. Anche noi abbiamo trovato la nostra casetta con il garage, il giardino sul retro e il barbecue. Detto cosi sembra più idillica di quello che è realmente, ma non ci lamentiamo. Gli americani sono un popolo più strano di quello che ricordavo. Mangiano male. Veramente male. Io ormai ho la nausea solo a guardarli ingozzarsi di cibo da fast food. Pieno di salse, di grassi, di zuccheri. Tutto quello che è healty per loro è definito organic. Ieri ho comprato del rosmarino organic. Mi chiedo come sia quello non organic. Tutto ha mille varianti low fat che sono ancora più letali della versione non dietetica probabilmente. Qui poi è la meta del cibo messicano ovviamente e tutto ha lo stesso odore, lo stesso sapore speziato. La carne sembra l’unica cosa veramente buona. Anche se è troppo rosa, troppo bella. Sembra disegnata per un cartone animato. Poi però gli americani si sfondano di palestra. Quella è aperta 24/7 ed è sempre, a qualsiasi ora della notte e del giorno, piena di gente che ci crede. Ci crede davvero. Hanno tutti delle spalle tanto e delle braccia talmente pompate che secondo me non riescono neanche a piegarle. E le sfoggiano in magliette improponibili tagliate sotto l’ascella così se vede “er muscolo”. Le ragazze sono tutte bionde e abbronzate. Almeno quelle in palestra che ci credono forse anche di più. Ma ho scoperto il loro segreto: si fanno una marea di lampade. È si! Qui di tanning center ce ne sono a decine. E si sbancano pure i denti. Qua va molto di moda. Eh care mie, non me la date a bere! Anche perché, ci crediate o no qui a fatto un freddo mai visto e il sole non so dove l’anno preso anche se, loro, il freddo non sembrano sentirlo. (In realtà quasi tutte hanno pure la cellulite come puntualizzerebbe la mia compagna di viaggio! Se mangi strutto tutti i giorni direi che è inevitabile!) Portano mini calzoncini e gli Ugg… Qui sono un’istituzione. Complimenti per lo stile. Questa però è anche la patria dell’individualismo, del multiculturalismo. Guardarsi intorno è uno spettacolo. Mi rendo conto di quanto siamo omologati noi italiani. Tutti vestiti uguali, con le stesse scarpe, gli stessi jeans. Qui vedi la bionda cheerleader vestita di rosa, il rapper, il nerd, quello alternativo, il palestrato, il rasta, il militare. La San Diego State University un’università di 44.000 studenti. C’è chiunque. Anche la nonnina che ha deciso di tornare a studiare nella mia classe di spagnolo. (E suo marito sarà stato probabilmente l’ottantenne sullo step accanto al mio!) Ma soprattutto qui tutti vengono da un Paese diverso. Se non loro, i loro genitori. Nella mia classe di Entrepreneurship ci saranno almeno 15 nazionalità. Qui è pieno di confraternite manco una puntata di Greek. Di tatuatori e nails spa. Di negozi di Vicrotia’s secret. Di fast food drive thru. La benzina costa un euro, il che spiega le macchine che circolano. Se hai fame l’unica cosa che ti salva è un hamburger. O gli spaghetti wok. Tutti sono rilassati. Molto più rilassati che in Italia. I professori sono alla mano. La mia si fa chiamare prof. Z. La mia prima lezione di business plan è iniziata con la testimonianza di un tipo in polo, jeans e cappellino da golf che quando ha esordito con “quando ho guadagnato il mio primo milione” ho capito che non era un cretino qualsiasi ma un imprenditore multimilionario che ha fatto soldi con una o più dot.com della Silicon Valley e che è entrato in aula dicendo “alzatevi e chiudete gli occhi!”. Cosi ho capito. Qui il libro da 2000 pagine non serve! Forse il sogno americano non è solo una favola che raccontano agli europei.

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